10 Giugno 2025
È proprio nel tempo della pausa, nel tempo sospeso dell’estate, che ciò che si è appreso durante l’anno scolastico può finalmente sedimentare.
Quando la scuola si allenta e il ritmo si fa più lento, si apre uno spazio prezioso: quello in cui l’apprendimento smette di essere solo nozione o esercizio, formule ripetute o testi rivisitati e può trasformarsi in in immagini interiori, in pensieri che si aprono, in acquisizione profonda.
È in questa sospensione apparente che il sapere trova il tempo di radicarsi, di diventare parte di sé.
Eppure, quando si apre il tradizionale "libro per le vacanze", l’ex sussidiario che accompagna ancora oggi milioni di bambini nei mesi estivi, ci troviamo di fronte a un paradosso. Anche lì, anche in quel tempo apparentemente libero, al bambino viene imposto un compito silenzioso ma potente: restare dentro i confini.
Confini visivi, in questo caso. Le pagine di quei libri spesso propongono disegni già tracciati, già delimitati da linee nere spesse. Al bambino si chiede di colorare. Ma non di creare. Non di inventare. Di riempire. Colorare “bene”, senza uscire dai margini. Usando magari i pennarelli, strumenti che per loro natura non permettono sfumature. Il risultato? Un colore piatto, uniforme, che non lascia spazio all’ombra, alla luce, alla profondità del sentire.
Ma ci siamo mai chiesti perché proponiamo questo tipo di esercizio visivo e simbolico ai bambini?
Quale idea di educazione, di apprendimento, di infanzia c’è dietro questo gesto quotidiano e apparentemente innocuo?
La risposta, a una prima lettura, sembra pratica: è più semplice da progettare, da stampare, da spiegare.
La consegna è chiara: colora stando nei bordi. Ma è davvero solo una questione di comodità? O c’è qualcosa di più profondo — e più preoccupante — che si cela dietro questo modello?
Quello che stiamo precludendo al bambino, con questi compiti visivi standardizzati, non è solo l’occasione di esprimere la propria creatività. È la possibilità di attingere alla propria fantasia, alla propria interiorità, al linguaggio dell’immaginazione. Disegnare senza contorni non è un gesto caotico: è una forma di pensiero. È la possibilità di dare forma a emozioni, a ricordi, a desideri che non necessariamente devono essere tradotti in parole. È un accesso diretto alla parte più autentica del sentire, del percepire.
Quando tutto è già tracciato, il bambino non è più autore, ma solo un esecutore.
Allora, forse, vale la pena fermarsi un attimo e riformulare la domanda. Non “cosa dobbiamo far fare ai bambini durante l’estate?”, ma piuttosto: “a quale esperienza interiore vogliamo dare spazio?”.
Educare significa capire quando lasciare margini e quando avere il coraggio di rinunciare ai contorni.
Francesca Merlo
Condividi questo articolo